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Quiescente, obliqua

Quiescente, obliqua, dance perfomance di Ferruccio Ascari, presentata per la prima volta Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel gennaio del 1981, in collaborazione con il danzatore Gustavo Frigerio, viene riproposta in una nuova versione. Rispetto all’edizione di allora, una serie di nuovi elementi testimoniano dell’evoluzione del lavoro dell’artista… 

 

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Zooa, 2005/7

fili5web2101,x64,8 cm – inchiostro su carta

 

fili1web101,x64,8 cm – inchiostro su carta

 

fili2web101,5×64,8 cm – inchiostro su carta

 

Estratto dal saggio di Irene Cusmà

Zoographia, la scrittura della vita ovvero Dell’esposizione impossibile

pubblicato in “Oltrecorrente”, n. 12, 2006.  (http://www.oltrecorrente.it/zoographia.htm)


Immaginiamo il teatro greco di Tindari, sospeso su un promontorio, affacciato a cielo e mare. Immaginiamolo in una tersissima giornata di primavera, quando, quiete e leggere, tutte le isole Eolie gli riposano di fronte, placidamente adagiate sul mare calmo e trasparente, ognuna con quella precisa curva che la contraddistingue.E’ il primo mattino, il cielo comincia appena a trascolorare dal bianco al blu, passando per tutti i toni dell’azzurro.

Qui si inaugura e insieme si ripete l’essere luogo d’incontro del teatro greco: una croce tra notte e dì, cielo e terra, terra e mare; tra uomo e dei, tra uomo e uomo. Qui, questa croce d’infiniti bracci, brilla come una stella.

 

[…]

 

“… le esponiamo a Tindari queste creature?”

“No, non può starci un disegno all’aperto. Il disegno è fragile e va protetto. Se mai si può fare qualcosa pensata per l’effimero … che so, un segno sulla sabbia”.

 

[…]

 

Immaginiamo nuovamente lo stesso teatro, ancora adagiato al centro dell’incontro. Nel cuore di questo centro sta l’orchestra, luogo che apre lo spazio allo sguardo, come lo schiudersi a spirale di un bocciolo, contraddicendo la parzialità della cavea, l’infinita linearità dell’orizzonte tra cielo e mare. In questo centro immaginiamo quello che lì è impossibile vedere: i nostri disegni. Li immaginiamo lì, perché di nessun luogo parlano come del centro di questa croce splendente d’infiniti bracci. Qui ha origine la tragedia, qui si apre il mondo e si chiude, qui si offre allo sguardo, allo schiudersi del giorno, e poi e si sottrae, quando il giorno intero è trascorso e l’oscurità inghiotte lo sguardo stesso.

 

[…]

 

Così stanno, queste creature, in cerchio, al centro del teatro che è il mondo: esposte-esponenti (al)l’aperto.Stanno dove si elude il tempo, dove il tempo è giocato, assorbito dall’attimo; stanno sospese a quel centro che sta per schiudere un mondo, oppure per riassorbirlo e, nell’immobilità più originaria, portano il pegno, il segno del movimento che seguirà.

Nel loro centro è esposto il legame di passare e rimanere, adombrato dal doppio movimento del ritrarre. Proprio in virtù di tale esposizione, questi disegni insieme ritraggono e rimandano. E’ un rimando, quello del segno, che fa coincidere i due sensi del ritrarre. Ritirare ed esporre qui si incontrano originariamente nel centro che è il segno, la pausa invincibile a cui approdano i due movimenti del respiro.

Ritrarre. Certo, questi disegni parlano di quella pausa nel mezzo, al centro appunto, di quel momento di passaggio, di sospensione terribile e leggera fuori dal tempo, fuori dal mondo. Sospensione, leggera quando prepara l’apertura, il ricadere della pioggia d’oro; terribile quando invece si addensa scura e concentra tutto in un punto, richiamando ogni tratto per la ricaduta.

Ma nel parlare, nell’esposizione, questi zooa non si possono ritrarre, non possono che farsi a loro volta mondo. Questo accade inventando una forma in cui si specchi il mondo stesso, che il mondo stesso rimandi.

Rimandare. Per questo, contemporaneamente, queste creature (ekgona), inesponibili se non fuori del mondo (fuori del passare, ad esempio nello spazio immobile del museo), parlano del tempo del mondo che si svolge tra centro e centro, tra l’origine e la fine; parlano delle sue forme: del lampo, della medusa, del soffione, della menade (anche della cipolla, mi suggeriscono), ma non rappresentandoli, presentandoli cioè una seconda volta, ma accogliendo a ogni segno l’attimo originario e conclusivo del loro venire alla luce, accordandosi di volta in volta a quanto in loro echeggia dello stare al mondo al modo dell’attimo. Accogliendo e insieme rimandando, restituiscono a ogni sguardo la qualità della pausa luminosa e accecante che precede ogni inizio: il silenzio terribile prima del tuono; la sospensione del soffione, nel punto più alto, quando, tra terra e cielo, il giro successivo, se pure ci sarà, è indecidibile; della medusa la pausa trasparente e breve del ritmico andare; della menade l’impossibile immobilità nel vortice dell’avvitamento.

Così lo sguardo di zoographia fissa la vita: inventando e restituendo il fuori-dal-tempo al centro del nostroessere-nel-tempo.